Vola il tempo maledizione, per fortuna o per eccesso di velocità ci si ritrova a far conti con le statistiche. La stagione sportiva che è iniziata da poco è quella del 2025/26, ci rifletto su, son numeri che mi dicono qualcosa.
Ma inizialmente non ci credo.
Da quel 1995/96 saranno passati 30 anni. Incredibile.
La prima volta nello sport è un qualcosa di illogico. Un pianeta che ti viene incontro di botto e che ti accompagna per il resto della vita.
30 anni son tanti.
Non lo dimenticherò mai quel 15 ottobre 1995.
Pur di non guardare la mia Inter, nel limbo tra l’era Pellegrini e quella di Moratti mi andrebbe bene qualsiasi altro sport.
Mio padre, all’epoca tecnico informatico che si teneva il weekend per rilassarsi in campagna e mandare tutto a quel paese mi fece una proposta che all’inizio neanche presi sul serio: “Andiamo a vedere la Dinamo? Forse mi regalano i biglietti”.
La Dinamo è la Dinamo Banco di Sardegna Sassari, in Sardegna il basket per antonomasia, un qualcosa che nella mia vita, seppur giocando a basket (giocando è un parolone, diciamo che pur di non studiare tutto faceva brodo) non rientrava tra le cose che seguivo.
Che cos’era la Dinamo? A 12 anni lo ignoravo. Ignoravo anche di aver un padre casinista e sportivo, poiché visto sempre sotto i riflettori di chi lavora tutto il tempo, arriva verso cena per riposare e trova il figlio a far telecronache sul tavolo di cucina con partite create con i pupazzi di una serie di libri di fiabe.
Ogni libro nuovo non era una storia nuova. Era calciomercato. I buoni con i buoni e i cattivi a far casino.
Figuriamoci la sua povera pazienza.
Porca miseria mi son appena scesi i lacrimoni a pensar a cosa sto per scrivere.
All’epoca mio padre mi raccontava spesso di un ragazzo di belle speranze di nome Marco, che lavorava a stretto contatto con lui e che era nato e cresciuto nella Dinamo. “Mi ha detto se ci andiamo, ci andiamo?”.
La mia prima risposta, immediata e innocente stava per essere: “Ma cosa diamine è la Dinamo?”, ma ricordando poi che l’alternativa era un pomeriggio di studi o alla peggio un incontro religioso la scelta non fu poi così complicata.
Premessa: casa ci si muoveva solo con la macchina aziendale. Ma nel weekend perché non fare una passeggiata?
Passeggiata di salute direi, perché dal mio paese a Sassari, non so il perché di quella scelta, oggi romantica, ai tempi masochista, fu prendere il treno.
Dalla stazione al palazzetto della Dinamo son quasi 4 chilometri di strada.
In quei 4 chilometri ho scoperto un padre a me sconosciuto.
Miliardi di aneddoti su ogni vicolo, ogni via, ogni postazione in cui aveva sistemato un pc difettoso e io a osservare una persona vivace, allegra e pronta allo scherzo che mi pareva il fratello gemello sotto stress a casa.
Mi disse: “Alla Dinamo portati un quaderno per gli autografi, vedrai!”. Ora, io neanche so cosa sia quindi neanche vedo il motivo per chiedere autografo a chissà cosa.
Dopo una lunga, eterna camminata, l’anticipo alla partita fu qualcosa di assurdo. La palla a due era in programma alle 18, noi eravamo lì alle 15.
“E ma vedrai Marco, magari riusciamo ad entrare”.
Ad oggi non mi spiego che pianeta si sia allineato per farmi felice.
Alla visione dei biglietti avevamo due alternative, aspettare o provare l’ingresso. Evidentemente la pazienza non è di casa e visto che mio padre si credeva un vip per avere già il biglietto in tasca ecco la visione.
Bella, bellissima, imponente e col profumo della palla a spicchi. Il campo spuntava di botto nel labirinto di porte e, gioco del destino, nessuno era tra me e il campo.
I giocatori, alti all’epoca quasi 4 metri (ricordatevi che ho 12 anni, tutto in proporzione), mi fecero timore ed emozione.
“Dammi il quaderno, ajo che chiediamo gli autografi”.
Allora, intanto il quaderno è il mio e al massimo sono io a dover chiedere, ma ormai mio padre era irrefrenabile. Un signore dalla gentilezza infinita ci si parò davanti dicendo di non disturbare ma, la faccia tosta ormai attivata, fece dare il mio quaderno a quel pover uomo che si girò ogni giocatore, passo per passo durante lo stretching, a far mettere una firma su un foglio bianco che per loro poteva anche esser nulla ma per me era l’inizio di una storia d’amore.
Ero ufficialmente un tifoso della Dinamo e stavo per vedere l’incontro con la Jcoplastic Napoli.
“Oh, il giocatore di colore di Napoli sembra forte, ora gli dico di aggiungere l’autografo”. Folle o no, ma oggi capisco anche quando mi si chiude la centralina e faccio le stesse cose, mio padre avvicino Sean Green per apporre l’ennesimo calco sul quaderno e poi per tutto rispetto quel giorno ne segnò 32 di punti ma fu la Dinamo a vincere 83-81, una cosa che non dimenticherò mai.
Era la Dinamo di capitan Casarin, l’eleganza in campo, di Jarvis Lang, il mio primo idolo, treccine e numero 13 esplosivo, di un primo Emanuele Rotondo pronto a divenir leggenda da li a poco, di Ziranu, Angius, Picozzi, Bonino ed Esposito, di un giovanissimo Federico Rotondo che forse a me ha firmato il primo autografo:
“Ma sei sicuro che la vuoi da me la firma?” mi disse l’allora fratello di Emanuele Rotondo.
“Scusa tu giochi?”.
“Si’”.
“Allora firma”, il tutto mentre Rotondo, che poi diventerà un super professore, parlava in tribuna con gli amici.
Quel giorno, e io lo auguro ad ogni genitore con figli e ad ogni figlio con genitore, la parola sport vinse su tutto.
Io conobbi un padre in versione ultras, casinista al punto di andar da chi batteva sul tamburo e chieder più ritmo, più casino (col mio pensiero: ”Ora lo ammazzano”) esultando ad ogni tripla e ad ogni schiacciata di Lang.
Il piccolo problema fu che lo sport fa entrare in una strana dimensione. Ma l’orologio non dice mai bugie.
La partita finì intorno alle 20. L’ultimo treno delle 20.30 era praticamente impossibile da prendere coprendo 4 chilometri a piedi in venti minuti scarsi.
E allora nuova perla di mio padre, prima macchina fermata, prima richiesta di passaggio dando la colpa a me che non avevo voglia di camminare. Missione compiuta.
Due cose mi colpirono immediatamente sul treno ripensando al pomeriggio. La bellezza della maglia della Dinamo e la tribuna stampa. Ad entrambe ho fatto una promessa e se ora posso calcare con gioia i campi gloriosi del calcio dilettantistico come giornalista non mi son mai dimenticato che prima o poi la Dinamo la vedrò da lassù.
Anche perché è da lì che cercherò con lo sguardo un genitore con un bambino.
C’è chi dice che con me la sfiga si sia accanita anche troppo, chi invece che per le cose che combino dovrei scriver un libro. La verità è che io grazie allo sport son sempre rinato dalle cadute della vita. Qualsiasi esse siano. Con qualsiasi gravità.
Non è esser Rocky ma esser tifoso di qualsiasi sport e gioco forza trovar sempre una gioia (oddio, che vada tutto male anche nello sport è possibilità ma, cavolo, ne segui 100 uno andrà almeno quasi bene).
Quello che a me ha dato la Dinamo quel 15 ottobre del 1995, 30 anni fa, è molto di più di quanto io ho dato alla Dinamo, alla squadra, all’ambiente, al palazzetto, ai colori e alla tifoseria più bella d’Italia, alla birra, al Commando, a Luca e al suo sorriso di benvenuto, a Umberto e Mario che trovi in curva, a Cosimo che è enciclopedia di basket, a Baingio che guarda Basile con occhi con cui non ha mai guardato la sua dolce metà, ai vari Banks, Chalmers, Whiting, i cugini Diener, Vanuzzo & Devecchi, Green (più alto io di 1 cm) a tutti quelli che mi hanno fatto esultare come un matto, ai presidenti Milia, Mele e Sardara (oh, quest’ultimo anche il Triplete ha fatto, è praticamente mito!) in attesa di ritrovare anche Polonara a Sassari.
A Marco che mi fece scoprire il basket ma soprattutto a mio padre Matteo che se lo godette per pochissimo tempo.
Nessuno avrebbe mai immaginato che mio padre avrebbe avuto un altro anno e mezzo di vita sana. Nessuno sapeva che quel bambino avrebbe, come promesso, calcato i campi da gioco come giornalista. È questo il bello della vita, nessuno sa e tutto accade, come una tripla o una schiacciata nel basket. Anche se quel basket ci ho messo 30 anni per ringraziarlo.
Matteo, mio padre, venne messo ko da un male incurabile e miserabile pochi anni dopo quando ormai non poteva più respirare. Riuscimmo a vederci solo un’altra partita insieme, contro la Turboair Fabriano, poi sempre con la testa lucidissima fu costretto a informarsi sulla Dinamo dal divano.
Mia sorella mai si godette il papà casinista, mia moglie non lo conobbe se non nei racconti (sarebbe stato un binomio folle) e a questo punto tocca a me ricordarlo, anche se è la prima volta con la palla a spicchi in 42 anni. Solo due amori in comune, la Dinamo e Marco Pantani.
Il figlio mai accettò niente di ciò che stava accadendo. Le ultime parole fra i due furono: “Contento sei” che saranno sempre un tarlo e un marchio di fabbrica per ogni cosa brutta.
Ma un giorno, ormai che son passati 30 anni, il “contento sei” sarà quando io sarò tra i giornalisti della Dinamo, a far casino peggio di qualsiasi tifoso, a sostenere una squadra che anni fa mi regalò la cosa più bella del mondo: l’esser tifoso di una passione.
Il “contento sei” diventerà una cosa grande, immensa.
Proprio come la mia Dinamo.