Gio. Nov 21st, 2024

Non ci era mai capitato di riproporre un intero capitolo di un libro. Ma questa volta era troppo bello non riportare il racconto in cui una sconfitta diventa meravigliosa vittoria, quella dell’amicizia indissolubile, superiore alla guerra ed al clima di odio. E’ uno stralcio del libro che oggi la nostra Biblioteca propone, quello di Giorgio Barbareschi: Bisogna Saper Perdere, le dieci sconfitte più incredibili, epiche e devastanti della storia dello sport.

Barbareschi, mente e co-autore del libro Dinastie, le franchigie che hanno fatto la storia dello sport americano (ammettiamolo, qua siamo di parte e Giorgio lo ringrazieremo all’infinito), racconta con semplicità il rapporto con la sconfitta, perché la sconfitta può anche essere rock, può e deve insegnare più di una vittoria, ed il sentimento che crea dura maggiormente rispetto ad una vittoria, tra rammarico e voglia di rivincita.

Il libro, oltre che super consigliato, è veramente bello, dove l’autore spiega anche termini tecnici a noi sconosciuti, come ad esempio nel golf, rendendo più comprensibile ciò che si legge.

Per questo, d’accordo con il mitico Giorgio, riproponiamo una delle 10 sconfitte. Dove di sconfitta forse proprio non c’è traccia.

Atletica – Il Bianco e il Nero

“Parla a mio figlio dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra”.
Luz Long

Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, due straordinari atleti hanno lasciato all’umanità un indimenticabile esempio di sportività e amicizia. Uno di questi ha vinto quattro medaglie d’oro, stabilito tre record mondiali, un record olimpico, ed è passato alla storia come uno dei più grandi sportivi del ventesimo secolo. L’altro invece potrà anche aver perso la sfida in pista e il suo nome essere ricordato oggi soltanto da un ristretto numero di appassionati, ma con le parole e soprattutto le azioni ha conquistato un trofeo persino più grande.
Carl Ludwig Hermann Long, detto Luz o Lutz a seconda della grafia, nasce il 27 aprile del 1913 in una famiglia della media borghesia di Lipsia che, pur nella profonda recessione tedesca che segue la conclusione della Prima guerra mondiale, riesce comunque a garantirgli un’infanzia serena e moderatamente agiata.

Al Neue Nikolaischule Gymnasium il giovane Luz comincia a interessarsi all’atletica e dimostra un talento che gli allenatori non faticano a notare. Terminate le scuole superiori, Long entra nel Leipziger Sport Club, dove prosegue gli allenamenti e comincia a specializzarsi nella disciplina del salto in lungo.

A poco più di vent’anni, ai primi Campionati europei di atletica leggera che si svolgono a Torino nel 1934 Long vince la medaglia di bronzo con la misura di 7,25 metri, dietro al connazionale Wilhelm Leichum e al norvegese Otto Berg.

Si iscrive poi alla facoltà di legge dell’Università di Leipzig, dove nel 1938 si laureerà avvocato, ma nel frattempo continua ad allenarsi nel lungo e a migliorare i risultati in pedana, diventando ben presto il miglior saltatore europeo degli anni Trenta.

Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, che il Führer Adolf Hitler e il ministro della propaganda Joseph Goebbels hanno voluto per celebrare il rinascimento della nuova Germania nazista e la superiore organizzazione del Terzo Reich, Luz Long è la più grande speranza tedesca nell’atletica su pista. Gli atleti teutonici sono infatti favoriti in molte delle discipline di lancio (vinceranno cinque ori tra maschile e femminile nel peso, disco, martello e giavellotto), ma nel resto delle competizioni sono ben poche le specialità in cui gli alfieri di casa possono realisticamente puntare alle medaglie.

La figura di Long è la rappresentazione fisica dell’ideale atleta ariano adorato da Hitler e da tutto il direttivo nazista: un metro e ottantaquattro centimetri di altezza, fisico muscoloso ma longilineo, fronte alta e spaziosa, capelli biondi e splendenti occhi azzurri. Sembra un dio vichingo, il perfetto manifesto di quella razza superiore teorizzata dagli ideologi di un movimento assolutista e spietato che di lì a poco avrebbe dichiarato guerra al mondo intero, lasciando dietro di sé una rovinosa scia di morte e distruzione.

In realtà Long ha una formazione ideologica illuminata, sviluppata grazie da un’educazione liberale trasmessagli dalla famiglia e condivisa da quella parte della società borghese tedesca che presto Hitler si impegnerà a spazzare via nel procedere del suo delirio.
Ma alla vigilia delle Olimpiadi di Berlino, delle radici sociali di Long al Führer interessa ben poco. Conta soltanto che riesca a saltare più di tutti gli avversari portando gloria al Reich e all’idea degli ariani come razza eletta. Soprattutto perché tra quegli avversari ce n’è uno in particolare che sta causando non poca irritazione tra i gerarchi nazisti.

James Cleveland Owens, ribattezzato Jesse da un insegnante che non riuscirà a comprendere correttamente il suo «My name is J.C.» durante il primo appello a scuola, nasce in Alabama nel 1913. La famiglia però capisce ben presto che il contesto sociale del sud degli Stati Uniti agli inizi del Novecento non è tra i migliori per crescere un giovane afroamericano, a meno di non volerlo vedere con una gerla carica di cotone attaccata alla schiena per il resto della vita.

Gli Owens si spostano quindi al nord, nella fattispecie a Cleveland, dove Jesse fa conoscenza con la fredda morsa della povertà e della fame, ma almeno può frequentare la scuola e trovare qualche lavoretto come fattorino per i negozi della zona. Soprattutto è lì che il ragazzo scopre la passione per l’atletica leggera, nonché una predisposizione naturale alla velocità mai vista prima (né forse poi, se escludiamo Usain Bolt) in un altro essere umano.

Jesse domina tutte le competizioni giovanili e al momento di scegliere il college ha circa una trentina di offerte per borse di studio da tutti
i migliori atenei degli Stati Uniti, ma decide di rimanere in Ohio per stare vicino alla famiglia e di frequentare l’università statale a Columbus. Al college, Owens vince praticamente ogni gara a cui prende parte, conquistando un totale di otto titoli NCAA in soli due anni.

Ma c’è un’occasione in particolare in cui dimostra di essere un atleta davvero straordinario.

Il 25 maggio del 1935, al meeting della Big Ten di Ann Arbor in Michigan, Owens realizza ben quattro record del mondo: nel salto in lungo con la misura di 8,13 (record clamoroso destinato a durare per oltre venticinque anni e misura che alle Olimpiadi di Rio del 2016 gli sarebbe valsa un’irreale quarta posizione assoluta, a un solo centimetro dalla medaglia di bronzo), nelle 220 yard in rettilineo con il tempo di 20″3, nelle 220 yard a ostacoli con 22″6 (primo uomo a scendere sotto i ventitré secondi) ed eguagliando quello delle 100 yard con 9″4. Il tutto in quarantacinque straordinari e irripetibili minuti dall’inizio della prima gara alla conclusione dell’ultima.

Con questo genere di prestazioni la convocazione nella Nazionale americana perle Olimpiadi di Berlino 1936 è scontata, ma non lo è altrettanto la decisione di Jesse di partecipare all’evento. Nel dicembre del 1935 Owens riceve una lettera dal segretario della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, l’associazione americana per la promozione delle persone di colore) Walter Francis White, che lo invita a boicottare la spedizione olimpica per evitare di nobilitare con la sua partecipazione, e le probabili medaglie che ne sarebbero derivate, una nazione sul cui suolo le persone afroamericane vengono quotidianamente perseguitate e ghettizzate.

L’invettiva di White è diretta anche verso la Germania, Paese nel quale la discriminazione verso le minoranze etniche raggiunge livelli secondo lui ancora più intollerabili.

Nei mesi successivi il movimento a favore del boicottaggio degli atleti di colore fa sempre più proseliti, con Owens che per la prima volta
considera davvero di rinunciare alla partenza. Ma le pressioni del presidente del Comitato Olimpico Avery Brundage (tra l’altro dichiaratamente filo-nazista), unite alla voglia di Jesse di vincere e dimostrare di essere lo sprinter migliore del mondo, lo portano alla fine a decidere di imbarcarsi sulla SS Manhattan, il transatlantico diretto in Europa assieme agli altri atleti statunitensi.
Owens arriva quindi a Berlino, e la prima gara olimpica sono i 100 metri. Piazza subito un 10”3 in batteria, record del mondo (suo) eguagliato.

Nei quarti scende a 10”2, anche se il nuovo primato non viene omologato per l’eccesso di vento a favore. Il giorno dopo, il 3 agosto, Owens si gestisce (per modo di dire) nella semifinale chiusa in 10”4 e poi stampa un altro 10”3 nella finalissima, con cui batte nella corsa all’oro l’altro americano Ralph Metcalf e l’olandese Tinus Osendarp.

Il giorno successivo è quello sulla carta più difficile, perché ci sono le batterie dei 200 metri e tutta la gara (qualificazione e finale) del salto in lungo, che è anche quella in cui Owens si sente più a rischio di perdere.
Già, perché se il dominio di Jesse nelle gare di velocità era quanto meno abbastanza pronosticabile (considerando che le sue prestazioni stagionali sui cento e i duecento metri erano le migliori al mondo e che il quartetto americano della velocità non avrebbe perso nemmeno correndo con le scarpe slacciate), nel salto in lungo la faccenda è decisamente diversa.

In primo luogo perla qualità degli avversari. C’è il giapponese Naoto Tajima, che qualche giorno più tardi vincerà la medaglia d’oro nel
salto triplo, stabilendo il nuovo primato mondiale e sfondando per la prima volta nella storia la barriera dei sedici metri. C’è l’azzurro Arturo Maffei, otto volte campione italiano della specialità, che prima di passare all’atletica era stato anche portiere di riserva della Fiorentina nella Serie A di calcio.

Ci sono anche due connazionali di Owens, gli americani Bob Clark e John Brooks, entrambi capaci in carriera di saltare misure superiori ai sette metri e settanta. E infine ci sono i tre tedeschi, beniamini del pubblico di casa ed eletti rappresentanti della nobile razza ariana: Arthur Bäumle e Wilhelm Leichum, due ottimi atleti di livello continentale, ma soprattutto Luz Long.

Il campione di Lipsia è in gara a Berlino da titolare del record europeo ed è l’avversario numero uno da battere per Owens, che pur essendo primatista del mondo si è allenato poco nella disciplina, preferendo concentrare la preparazione sulla velocità pura.
Inoltre, se la tecnica di Owens nella corsa era pressoché perfetta grazie alla clamorosa predisposizione naturale e alla sapiente guida del coach Larry Snyder, nel lungo Jesse puntava quasi esclusivamente sulla clamorosa velocità, perché lo stile di salto lasciava invece abbastanza a desiderare.

Tutto il contrario di Long, la cui tecnica impeccabile gli permetteva di sfruttare al massimo sia la fase distacco, riducendo al minimo lo spazio tra il piede e il limite della pedana, che quella in aria, grazie a un movimento di braccia e gambe perfettamente sincrono con
la traiettoria del corpo.

Per questi motivi, alla vigilia della gara del lungo sono in molti a pronosticare il tedesco come possibile vincitore, con Hitler e la Germania intera che trattengono il fiato in attesa della sfida. Nella fredda mattinata del 4 agosto, con il termometro che segna poco più di dieci gradi, Owens vince senza problemi la batteria dei 200 metri, ma quando si presenta in pedana per le qualificazioni del salto in lungo le cose si fanno subito più complicate.

Mentre Long realizza al primo salto la misura di 7,73 che gli vale il nuovo primato olimpico e uno dei sedici posti disponibili perla finale,
Owens commette un nullo al primo tentativo (peraltro convinto che fosse un salto di prova, come a volte si usava a quel tempo) e poi replica con un altro nullo anche al secondo.

Panico.

Se Owens, che di norma avrebbe potuto saltare i sette metri e quindici centimetri necessari per la qualificazione anche bendato, dovesse sbagliare anche il terzo e ultimo tentativo, verrebbe eliminato dalla finale e dalla conseguente possibilità di conquistare un’altra medaglia.

Jesse si aggira molto nervoso ai margini della pedana in attesa che arrivi il turno di saltare, quando gli si avvicina proprio Luz Long. «Non hai bisogno di rischiare un altro nullo arrivando così vicino al limite di stacco» suggerisce l’atleta tedesco in un inglese perfetto seppur fortemente accentato. «Se parti una trentina di centimetri più indietro avrai sufficiente margine per evitare di sprecare il tuo ultimo salto, pur avendo la certezza di superare la misura necessaria per la qualificazione».

Il consiglio viene accompagnato da un asciugamano, che Long appoggia a terra nel punto in cui consiglia a Owens di far partire la prossima rincorsa. Un’indicazione semplice, quasi banale, ma in quel momento Owens non ha la lucidità necessaria per arrivarci da solo, ed è quindi grazie all’intervento di Long che Jesse modifica il punto di partenza, stacca abbondantemente prima del limite e piazza un comodo (per lui) 7,64 che gli vale la qualificazione alla finale.

Perché? Perché l’alfiere della razza ariana e pupillo di Hitler ha deciso di aiutare proprio l’avversario che sarebbe stato la più grande minaccia alla medaglia d’oro? Perché Long non ha fatto finta di niente, sperando piuttosto che il nervosismo di Owens lo portasse a commettere un altro nullo che lo avrebbe eliminato dalla finale del pomeriggio nella quale, a quel punto, lui sarebbe diventato l’automatico favorito?

I due non sono amici, in realtà non si conoscono per niente e prima di quel giorno non si sono mai rivolti la parola. Long non ha mai gareggiato in America e Owens prima di quelle Olimpiadi non aveva mai messo piede sui territori del Vecchio Continente, quindi al massimo possono aver letto l’uno dell’altro sugli stringatissimi resoconti delle gare sportive disponibili nei giornali dell’epoca.

Ma il tedesco è un uomo d’onore e soprattutto un grandissimo sportivo: vuole scontrarsi contro l’avversario più forte e farlo sul palcoscenico più importante.

Per questo lo ha aiutato, ma lo ha fatto soprattutto perché era la cosa più giusta da fare. Una decisione per lui molto semplice, che però, in un mondo che da lì a poco si dividerà in modo drammatico tra i paesi dell’Asse guidato dalla Germania nazista e tutti gli altri, soltanto un grande uomo come Luz Long poteva avere la forza di prendere.

Owens ringrazia il rivale, e i due si danno appuntamento al pomeriggio: saranno i sei salti della finale a decidere il vincitore della competizione e chi potrà portarsi a casa la medaglia d’oro nel salto in lungo.

Alle 18:30, dopo che Owens ha superato anche il secondo turno dei 200 metri con 21”1 (che, tanto per gradire, è un altro nuovo record olimpico), comincia la finale del lungo. Jesse stampa subito un 7,74 al primo tentativo che lo porta in testa, superando il 7,54 di Long e il 7,65 di Tajima che avevano saltato entrambi prima di lui.

La gara è bellissima: Long risponde ed eguaglia la misura di Owens, che però piazza subito un 7,87 grazie al quale si riporta al comando. Al terzo salto Long si avvicina con 7,84, mentre Tajima realizza la miglior misura della sua gara, un 7,74 con cui riuscirà a superare Leichume l’azzurro Maffei (che con 7.73 firma un primato italiano che rimarrà imbattuto per oltre trentadue anni) nella lotta per la medaglia di bronzo.

Nelle tre serie decisive la gara per l’oro è una sfida a due tra Owens e Long.Il tedesco atterra ancora a 7,73 sul quarto salto ma soprattutto vola a 7,87 sul quinto. La stessa misura di Jesse, che però al quarto tentativo ha realizzato un evidente nullo. In base alle vigenti regole della disciplina, che in caso di parità attribuiscono il vantaggio alla seconda miglior misura realizzata, Long passa in testa e i novantamila spettatori dell’Olympiastadion esplodono in un’ovazione. Anche Hitler è in estasi e applaude il risultato con entusiasmo, rivolgendo al suo alfiere un benevolo sorriso.

Jesse arriva correndo da Long e si congratula stringendogli la mano. Ha ancora a disposizione due salti per provare a superare il
rivale oppure perderà la medaglia d’oro, ma in quel momento l’americano è sinceramente felice di potersi confrontare con un avversario
così forte, e il gesto compiuto dal tedesco quella mattina non è stato certo dimenticato.
A Owens però basta il primo salto per chiudere la sfida: trentacinque passi di corsa, lo stacco, il volo, l’atterraggio. Il tabellone segna7,94 metri, nuovo record olimpico.

«Ce l’hai fatta!» gli riconosce Long, prima di tentare un ultimo tentativo che però si rivelerà un nullo. Owens invece si migliora ancora con il sesto salto, uno straordinario 8,06 che ne certifica ancora di più la vittoria e la seconda medaglia d’oro in due giorni.

Dopo la gara, Owens e Long si abbracciano calorosamente e poi si sdraiano uno accanto all’altro sul prato dello stadio, scherzando e parlando della sfida appena conclusa e di tante altre cose. L’uomo bianco e l’uomo nero in quel momento sono soltanto, come dovrebbe sempre essere, due esseri umani che condividono le reciproche esperienze di vita.

Nel cuore di Long, mentre solleva lo sguardo sulle nuvole che scorrono pigramente nel cielo di Berlino, la delusione per la sconfitta è mitigata dalla consapevolezza di aver fatto la cosa giusta. Aiutare il rivale con quel consiglio sulla rincorsa potrà forse aver cambiato il colore della medaglia che tra pochi minuti gli verrà consegnata dalle autorità naziste, ma l’orgoglio per aver rispettato lo spirito della competizione
olimpica è più forte dell’amarezza per non aver raggiunto l’obiettivo per cui si allenava da quattro anni.

Vincere non è tutto, pensa. Oggi ho perso, ma mi sono impegnato al massimo delle mie possibilità e sono stato battuto dal migliore. Questo mi basta.Sul podio della premiazione, il tedesco alza il braccio dell’avversario vincitore. Il sorriso felice di Owens strappa applausi da tutto lo stadio,
conquistato dalla classe e dalla genuinità di quell’atleta tanto lontano dagli ideali professati dal Reich ma comunque capace di scuotere gli
animi della gente comune.

Più tardi Owens dirà: «Il pubblico di Berlino mi ha regalato i migliori giorni della mia vita».

Persino il Führer alla fine ha ceduto. Dopo essere sceso dal podio, l’atleta americano passa davanti alla tribuna d’onore per tornare negli
spogliatoi. Hitler lo fissa, si alza e lo saluta con un cenno della mano.
Jesse fa altrettanto, prima di proseguire fuori dallo stadio a fianco del nuovo amico Luz.

Molti anni dopo Siegfried Mischner, giornalista tedesco presente ai Giochi, rivelerà di aver visto con i suoi occhi Hitler e Owens mentre si
stringevano la mano dietro le quinte dell’Olympiastadion. Si è parlato anche di una foto che avrebbe immortalato la scena, ma tale testimonianza non è mai stata ritrovata e l’episodio ha finito per assumere i contorni sfocati della leggenda.
Paradossalmente, Owens fu trattato meglio dai nazisti che dai suoi stessi governanti. Al ritorno in patria Jesse si vedrà infatti cancellare e mai più riprogrammare un appuntamento alla Casa Bianca dal presidente Franklin Delano Roosevelt, che era impegnato nella campagna per le elezioni presidenziali del novembre successivo e non voleva compromettere il sostegno degli elettori del Sud accostando la sua immagine a quella di un atleta di colore.

Nei giorni successivi, inframezzati da altre due medaglie d’oro di Jesse nei 200 metri e nella 4×100 (entrambe condite dal record del mondo) e dal decimo posto di Luz nella gara del salto triplo, i due atleti protagonisti di quella emozionante sfida in pedana si incontrano diverse volte al villaggio olimpico e colgono ogni occasione per conoscersi meglio.

Long racconta della vita a Lipsia in una Germania che sta ancora faticosamente cercando di risollevarsi dalla disfatta della Prima guerra
mondiale terminata quasi un ventennio prima, mentre Owens ricorda l’infanzia nelle terre del cotone in Alabama e i lavoretti a Cleveland come fattorino e garzone, in fuga dalla povertà e dal razzismo della società americana. Ora che la sfida in pista è terminata, Luz e Jesse sono solo due persone comuni che stanno pian piano diventando amici.

Qualche giorno dopo Long rilascia al «Neue Leipziger Zeitung», il quotidiano della sua città natale, questa dichiarazione: «La battaglia dei colori è finita. Il nero è stato il migliore, impeccabilmente il migliore, arrivando diciannove centimetri davanti al bianco».
Una dichiarazione molto coraggiosa se consideriamo la situazione politica dell’epoca, non ancora concretizzatasi nelle leggi razziali contro gli ebrei e nelle deportazioni delle minoranze verso i campi di concentramento ma di certo non particolarmente propensa ad apprezzare
un atleta ariano così aperto a riconoscere la superiorità di un avversario di colore.

Rudolf Hess, uno degli uomini più vicini a Hitler e tra i più alti in carica dell’intero Terzo Reich, nei giorni seguenti gli intima di «non azzardarsi mai più ad abbracciare uno sporco negro», esplicitando un palese fastidio verso quel tipo di atteggiamenti e dando a intendere che lo status di atleta di Luz avrebbe potuto proteggerlo da possibili ritorsioni del regime soltanto fino a un certo punto.

Ma Long non poteva non riconoscere la grandezza e l’umanità di quello straordinario rivale, tanto quanto Owens non dimenticherà mai
quell’uomo bianco, quel fratello nello spirito che avrebbe potuto essere soltanto un altro avversario in pedana ma che era ormai diventato, prima di ogni altra cosa, un vero amico.
Owens in seguito dirà: «C’è voluto molto coraggio per comportarsi in quel modo di fronte a Hitler. Si potrebbero fondere tutte le medaglie e le coppe d’oro che ho vinto e non basterebbero comunque a placcare a ventiquattro carati l’amicizia che nacque con Luz in quei giorni di Berlino». Ma Long e Owens, sebbene dopo le Olimpiadi continueranno a scriversi con cadenze regolari, purtroppo non si incontreranno mai più.

Jesse torna in patria con quattro medaglie d’oro al collo, ma gli onori e la fama da esse derivanti durano ben poco. Il razzismo negli Stati
Uniti è ben lungi dall’essere sconfitto, e ben presto Owens si ritrova a doversi barcamenare tra un lavoretto in una stazione di servizio, un altro da sorvegliante e qualche esibizione di corsa (anche contro cavalli, cani e motociclette) per racimolare qualche soldo con cui mandare avanti la famiglia.

Nonostante tutti i trionfi, Jesse è solo un altro negro come tanti, e come tutti i suoi simili deve sedere nella parte posteriore degli autobus, utilizzare il montacarichi invece dell’ascensore negli alberghi e frequentare soltanto bagni e ristoranti riservati alla gente di colore.
In una Germania in cui subito dopo la chiusura dell’appuntamento olimpico cominciano a soffiare i venti di guerra, Long prosegue invece
con gli studi in legge. Dopo la laurea e il dottorato, il vicecampione olimpico si trasferisce con la famiglia nel 1940 ad Amburgo per lavorare presso la locale corte di giustizia e per un po’sembra poter evitare di dover prendere parte al conflitto che sta dilaniando l’Europa.

Ma nell’aprile del 1943, il volgere al peggio delle sorti naziste induce il Reich a chiamare a raccolta ogni soldato disponibile. Tra essi c’è anche Long, che dopo un veloce addestramento da caporale viene inviato in Sicilia con la Luftwaffe a combattere nell’Operazione Husky contro l’invasione alleata dell’Italia.

Colpito da un proiettile a Gela e lasciato indietro dalla ritirata tedesca, Luz Long muore perle ferite riportate il 14 luglio dello stesso anno in un ospedale da campo inglese nei pressi di Santo Pietro (una frazione del Comune di Caltagirone, in provincia di Catania), non prima però di aver scritto un’ultima lettera, che l’amico Jesse riceverà solo qualche mese più tardi.

«Dove mi trovo sembra che non ci sia altro che sabbia e sangue, qui muoiono tanti soldati e sono preoccupato. Non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino che non ha mai davvero conosciuto suo padre. Il cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera  che ti scrivo, per cui dopo la fine della guerra vai in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz».

Owens terrà fede alla richiesta. Tornato in Germania nel 1951 al seguito della squadra di pallacanestro degli Harlem Globetrotters, Jesse
incontrerà ad Amburgo il figlio di Luz, Kai Long, e gli dirà: «Tuo padre mi ha costretto a dare il meglio». In seguito, Jesse parteciperà anche al matrimonio di Kai, e ancora oggi i nipoti dei due straordinari atleti si frequentano regolarmente.

Diversi anni dopo, in un cimitero americano vicino a Catania, la Croce Rossa ritroverà la salma di Long, sepolto in una fossa comune diventata poi un mausoleo ai caduti di guerra. Owens non riuscirà mai a visitare la tomba dell’amico, perché morirà di un cancro ai polmoni nel marzo del 1980 all’età di sessantasei anni. La sua autobiografia, completata solo pochi giorni prima di morire, comincia con questa dedica: «Per due compagni di viaggio incomparabili: mia moglie Ruth e il nazista che ha combattuto con me contro Hitler, Luz Long».

La storia dell’amicizia tra Owens e Long è diventata un simbolo della fratellanza sportiva, di un’amicizia tra due persone che avrebbero
dovuto essere agli estremi opposti in un momento storico di grande tensione ma che scelsero invece di essere fratelli, impedendo che l’odio
e la politica inquinassero l’onesta competizione che sta alla base del vero spirito olimpico.

Qualche anno fa, il gesto di sportività e umanità compiuto da Long verso Owens in quell’agosto del 1936 è stato celebrato dal Comitato Olimpico Internazionale come esempio di pace e fratellanza tra i popoli, secondo la fiamma originaria dei Giochi Olimpici e lo spirito del barone Pierre de Coubertin.
Per questo e per mille altri motivi, nonostante la sconfitta contro l’imbattibile Jesse Owens, quella di Luz Long rimarrà per sempre una delle più grandi vittorie nella storia dello sport.

Giorgio Barbareschi

Di Francesco Fiori

Francesco Fiori è un giornalista sardo, classe 1983, con la passione per il racconto dello sport. Di tutto lo sport. Aveva 6 anni quando, sicuramente errore o destino, ebbe in regalo una semplice radio, senza pensare alle conseguenze successive del pianeta sportivo. Una domenica, finiti i compiti, giocando con quel mezzo, captò la voce roca di Sandro Ciotti. Aveva appena scoperto l’esistenza di Tutto il calcio minuto per minuto. La prima sfida arriva nella stagione calcistica 90/91, quando lo zio, incredibile giornalista locale, gli diede come compito raccontare la giornata calcistica appena conclusa. Quel tema, ad appena 7 anni, risultò migliore rispetto alle tabelline, mai entrate volentieri in testa. Il premio fu la presenza alla gara di cartello della squadra del suo paese, il Ploaghe, due settimane più tardi. Destino volle che la morte prese suo zio proprio il mercoledì prima, innescando in Fiori la voglia di diventare giornalista. A scuola alla domanda “Hai solo il calcio in testa?” rispondeva “No, anche il ciclismo” e gli anni di partite contemporanee la domenica e di Tele +2 col calcio estero crearono un piccolo “psicopatico sportivo”. Tra gli sport di cui si innamora c’è l’hockey americano, soprattutto nella mitologica figura di Mario Lemieux. Poco prima della morte del padre, nel febbraio 2001, Fiori trova su La Gazzetta dello Sport proprio un trafiletto con scritto del ritorno sul ghiaccio di Lemieux dopo aver sconfitto una forma tumorale e un ritiro di 3 anni. Da lì altra promessa, qualora arrivi la possibilità di scrivere un articolo, questo sarà su Lemieux il Magnifico. Diventato ragioniere capisce immediatamente che iva e fatture sono molto più noiose del previsto e la prima collaborazione col giornale “Sa Bovida” gli fanno capire le regole basi del giornalismo, cosa che Fiori ignorava ma che rispettava, chiedendo solo la possibilità di scrivere e far colpo. Chiusa la parentesi Sa Bovida per problemi logistici e di salute dell’immenso Antonio Delitala ecco il primo reale colpo di fulmine, il sito di hockey Nhl Playitusa che non ha un articolo su Lemieux. Il direttore, con una mail che Fiori ancora oggi custodisce, risponde: “Beh, perché non provi a scriverne uno tu?” Il resto è la storia scritta al pc dopo averne scritto 5 pagine in un quadernone a quadretti. Un cambio di lavoro, non per sua volontà, spariglia le carte in tavola, col ragazzo che stando fuori casa tutto il tempo deve abbandonare la scrittura, ma peggio ancora va col primo di 3 ictus che colpiscono la mamma proprio in quel periodo. Tempo al tempo e con un altro cambio di lavoro ecco l’opzione che lo colpisce, scrivere della sua amata Inter sul sito SpazioInter. Gli inizi sono complicati, scrivere secondo le regole e non avere carta bianca lo bloccano un pochino, fino all’esplosione che nel sito si chiama Live. Il Live sarebbe il racconto, minuto per minuto e in contemporanea, della partita in tv e a Fiori tocca esordire con Milan-Inter. Quella sera il divertimento raggiunge le stelle, anzi, le supera e da quel momento l’impegno è triplo, con le perle di interviste a Sandro Mazzola (che risate), Gigi Simoni (che gentilezza) e Riccardo Cucchi, suo idolo radiofonico. Il tesserino da giornalista gli fa mantenere la parola data a 6 anni e ancor più sorprendente è la proposta di essere addetto stampa proprio della squadra locale, andare a vedere quelle partite che il destino gli negarono nel 1991. Si chiede spesso se sia il destino a far scherzi oppure se semplicemente la vita va accettata per quella che è. Il 30 gennaio 2021, dopo un ricovero di un mese con tutte le aggravanti possibili, in ospedale viene a mancare la mamma di Francesco. Il colpo è brutale. Il conto è pesantissimo, la mente lontana, lo scrivere, anche solo un piccolo pensiero sulla giornata calcistica, è di una difficoltà che ad oggi è ancora lontana dall'essere superata. Il resto è storia o noia, dipende da che parte si vuol vedere, dagli articoli su Gazzetta Fan News al raccontare qualsiasi sport, perché per Fiori ogni sport ha un suo eroe e perché ora, con IspirazioneSportiva.com, sarà ancor più spettacolare dar libero sfogo a qualsiasi ispirazione, come dice il nome e come gli ha insegnato Riccardo Cucchi: “Nella vita mai smettere di sognare!”. Anzi, scusate il ritardo! Mail: fcroda@yahoo.it Fb: supermariolemieux pec: francesco.fiori@pecgiornalisti.it