I Miti non muoiono mai. Al massimo non li vedi ma loro ci sono.
Da dove si inizia a parlare di Diego Armando Maradona? Non lo so e sinceramente dopo una notte insonne non ho neanche le idee chiare.
Se ne va un perno dell’infanzia di chi ha avuto la fortuna di conoscere il calcio negli anni 80. Diego arrivava al Napoli dal Barcellona, dopo che a 10 anni palleggiava con un’arancia o con una pallina da tennis, raccogliendo qualche spicciolo per vivere.
Si accorse di lui la squadra dell’Argentinos Juniors che lo fa esordire nel 1976, ad appena 16 anni, troppo giovane per essere nell’Argentina campione del mondo del 1978, con Marietto Kempes a imperversare nell’albiceleste.
“Ho due sogni, il primo giocare il mondiale, il secondo vincerlo”.
La malinconia attanaglia le parole, non le fa uscire come vorremmo. Maradona passa al Barcellona, dove lascia una caviglia per un intervento killer di Goikoetxea, con l’osso spezzato in tre punti e poi si vendica dello stesso scatenando una rissa nella finale (persa) di Coppa del Re contro l’Athletic Bilbao.
Diego viene squalificato per tre mesi. Ma chi se ne frega.
E’ il preludio alla favola italiana, Ferlaino e il suo Napoli scoprono che il ragazzo, il Pibe de Oro, vuole lasciare Barcellona, si fiondano a parlare col presidente Nunez e chiudono l’affare per 14 miliardi di lire ma i tempi si allungano improvvisamente.
Alle elezioni europee del 17 giugno si contano circa 25mila voti nulli, tutti con la scritta “Maradona”, perché tanta è la febbre che invade il calcio italiano.
Giovedì 5 luglio è il giorno di D10S, un piccolo riccioluto spunta dall’uscita degli spogliatoi dello stadio San Paolo, ha davanti a sé 60.000 spettatori accorsi per una semplice presentazione. L’amore tra Diego e Napoli ha lì la base. Altro che l’odio di Barcellona.
Avevo preso appunti sui numeri dell’avventura italiana di Maradona, ma poi li ho strappati. Non esistono schemi con Diego, non esistono i soli numeri, vado a memoria, chiudo gli occhi e vedo Pecci che gli tocca leggermente la palla contro la Juve, è una punizione, non ci passa neanche uno spicchio di luce eppure Maradona la mette lì, dove Tacconi non può arrivarci.
Ameri impazzisce, la radio racconta contemporaneamente la Serie A che nei 7 anni di Dieguito vede passare Platini, Zico, Socrates, Elkjaer, Gullit, Van Basten, Matthaus, Baggio, Vialli, Mancini e scusate se dimentico qualcuno.
Napoli è sola contro il nord e questo basta a gasare Maradona che con i colori azzurri del cielo vince due scudetti e si guadagna un posto nell’olimpo delle leggende.
Tra i due scudetti un’altra perla, vincere praticamente da solo un mondiale, quello del Messico 1986, dove in preda al potere di essere onnipotente vendica l’Argentina, come nazione, contro l’Inghilterra nella grana delle isole Falkland, poi umilia la squadra dei Tre Leoni in campo, dapprima in ciò che sembra un colpo di testa ma si rivela un gol di mano, “La mano de Dios”, poi, non contento, parte da meta campo e dribbla chiunque per depositare la palla in rete.
Contro la Germania viene tenuto a bada da Lothar Matthaus (L’avversario più forte mai incontrato disse Diego) nel primo tempo, ma visto che i tedeschi sono sotto ugualmente 2-0 lasciano più spazio al folletto col numero 10 che siglerà l’assist per il 3-2 finale.
Poi, casinisti italiani quali siamo, arrivano i mondiali delle Notti Magiche e dove vai a incastrare la semifinale Italia-Argentina? A Napoli, nella sua Napoli, nella Napoli che lo ama 365 giorni all’anno e 24 ore su 24.
Apriti cielo. El Diez porta la sua nazionale in finale dove perderà contro la Germania, in una finale che peccò di gioco ed entusiasmo, con il trofeo sollevato a fine manifestazione da Matthaus.
Lo stesso Matthaus, ad un evento dell’Inter Club, raccontò con orgoglio “Quella Serie A era il mondiale, tutti volevano giocarci, perché ci giocava Maradona e batterlo significava battere il migliore“.
Quei tedeschi che Maradona non ha digerito da allenatore, quando per il Mondiale 2010 è lui a guidare la sua nazione, alla sua maniera (il pullman arriva con i giocatori che cantano), convocando l’idolo della Bombonera Martin Palermo e lasciando a casa Zanetti e Cambiasso freschi di Triplete, andando a sbattere ai quarti per 4-0 contro la nazionale teutonica che non crede ai propri occhi per tanta allegria.
Maradona è stato così, prendere o lasciare, tanti amici che hanno tratto beneficio dal suo essere generoso e fragile allo stesso tempo, uno che come diceva Gianni Brera:
“Che Maradona fosse un genio, nessun dubbio è possibile. E che i geni siano un tantino squinternatidi cerebro, è risaputo e ammesso da sempre”.
Maradona ci lascia il 25 novembre, come un altro grande del calcio e degli eccessi, George Best, maglia numero 7, così da non litigare lassù sul 10, altro esempio di chi si è lasciato andare al successo piovuto addosso.
Gli eccessi che in 60 anni di vita di Diego mai sono mancati, ma a noi conta ricordare le perle vissute sul rettangolo di gioco, in quel prato verde che ha visto in Maradona il migliore di tutti.
Non riesco a trovare una fine degna per celebrare Diego. Son talmente tanti i flash, dalla danza nel riscaldamento contro lo Stoccarda ad un altro riscaldamento fatto al San Paolo, col Napoli, se ben ricordo, sta perdendo e Maradona è in panca.
Al rientro dei titolari in campo il San Paolo è impazzito. Qualcuno chiede: “Ma che diamine è successo?“. La risposta: “Niente di che, Diego è 15 minuti che palleggia senza far cadere il pallone in terra“.
Ciao D10S e scusami se non ti ho mai tifato. Ti ho direttamente amato.
Oh mama mama mama, Oh mama mama mama, Sai perchè mi batte il Corazon, Ho visto Maradona, Ho visto Maradona, Oh mama inamorato sono…