Lakers, l’anello è tuo, la missione è Kompiuta. Kappa maiuscola come Kobe, Kobe come Bryant, la forza nascosta della squadra oggi campione Nba per la 17esima volta.
Non ce ne voglia Miami, ma da quel tragico 26 gennaio 2020 (preludio di un anno nefasto) siamo tutti un po’ tifosi dei Lakers. Chi lo era già ha gonfiato il petto, trattenuto a stento le lacrime e chi non lo era ha iniziato a simpatizzare la squadra losangelina.
Perdere Kobe è stata una tragedia che nello sport può ricondurre alla morte di Senna, tanto vuoto si crea in una persona che nei filmati appare il top del proprio sport, un talento devastante e che fatichi a capire che non ci sia più.
E allora ci si attacca all’unico talento devastante del 2020, a colui che deve dettar ora il passo: LeBron James.
James da quel 26 gennaio ha iniziato una missione, l’ultimo tweet di Kobe è stato indirizzato proprio a lui, un “Continua a portare avanti il gioco” che nessuno mai avrebbe pensato potesse diventare un testamento.
LBJ ha deciso in gara 6 che i giochi si dovevano sostanzialmente chiudere lì, nella bolla di Disney World, nei 100 giorni in cui l’Nba è stata la perfezione dell’organizzazione (zero atleti positivi), con una partita che al secondo intervallo siglava un punteggio di 64-36 per i Lakers, secondo distacco record nella storia Nba.
Da quel momento, ma forse proprio da quel 26 gennaio, tutti hanno pensato che il cerchio perfetto sarebbe stato LeBron a sollevare il titolo, il quarto anello con tre squadre differenti, lui che negli ultimi 10 anni è arrivato in finale per 9 volte e la virtuale standing ovation che arriva alla sua uscita dal campo, quando mancano 1:27 alla fine, certifica il rafforzamento del mito.
Mito sì, perché anziché chiedersi sempre chi è il più forte tra LbJ e Michael Jordan (Nei giorni in cui Lewis Hamilton eguaglia le 91 vittorie di un altro Michael, Schumacher) bisognerebbe esser contenti di aver assistito allo show di James, in un momento in cui perso il mito Bryant il numero 23 gialloviola ha fatto l’impossibile per non renderci tristi.
Il trionfo di LeBron James (29.8 punti di media) però non sarebbe tale senza citare la degna spalla Anthony Davis, spauracchio (non solo per il monociglio) che chiude le finali con 25.0 punti di media a partita e che si coccola il primo titolo dopo aver chiuso la sua avventua a New Orleans e che viene inquadrato, giovane e sorridente, alle Olimpiadi del 2012 dove guarda il suo mito, indovina chi, Kobe Bryant.
Non solo Davis (ancora non sicuro al 100% di restare a L.A. nella prossima stagione) ma anche Rajon Rondo, terza stella della squadra e al secondo anello dopo quello con i Celtics (6 su 6 dal campo nei primi 10 minuti) e poi Superman Dwight Howard, titolare nei playoff dopo un ingaggio a gettone, Alex Caruso, sostituto di Howard nel quintetto di gara 6, Danny Green, ottimo nel limitare Jimmy Butler, Caldwell-Pope incisivo nel concerto Lakers e infine coach Frank Vogel, sesto allenatore nella storia a vincere l’anello al primo anno.
La mentalità e la leadership di LeBron hanno poi fatto il resto, doveva continuare lui il cammino e non ce ne voglia Miami, ma la missione è Kompiuta.
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